La sindrome dell’imbucata mi accompagna da sempre. Per moltissimo tempo ho pensato a me come un’abusiva della vita. Se qualcuno avesse scommesso sull’esito del mio concepimento, l’interruzione di gravidanza sarebbe stata data a 1.50, una vincita praticamente sicura. Nei primi anni Ottanta era infatti tutt’altro che scontato che una donna incinta di un uomo sposato decidesse di tenere il bambino. Soprattutto nel profondo Sud, e vivendo in casa dei genitori.
I fattori ambientali erano contro di me. Molti erano contro di me, ancora prima di scoprire che faccia avessi. Ben prima di sapere se sarei stata un maschietto o una femminuccia. A dirla tutta, dalla mia parte c’erano solo mia madre e mio padre. Due persone, di cui solo una aveva l’abbozzata consapevolezza di quello che avrebbe significato il mio arrivo.
Per anni ho tentato di risolvere la sindrome dell’imbucata con eccessi emotivi che si sono poi rivelati rimedi peggiori della malattia. Alternavo così, incoerente e imprevedibile come una pallina da flipper, l’atteggiamento accogliente e permissivo di una nonna, con fughe improvvise dettate dalla paura delle conseguenze di un mio eccessivo coinvolgimento. Per me, ma soprattutto per il mio partner. Già, perché se pensi che non saresti dovuta nascere, avendolo invece fatto puoi solo arginare i danni, cercando di disturbare il meno possibile gli altri umani. Il tuo sogno inconfessabile, però, è passare inosservata, fare tappezzeria e diventare trasparente.
Mi sono imbucata nella vita senza saperlo. Senza volerlo, addirittura. Per essere più precisa è stata mia madre ad imbucarmi. Solo da poco sono riuscita a dirle grazie per questa scelta che, come un cocktail, è stata il risultato di vari ingredienti shakerati: l’amore per la goccia di vita attecchita in lei, il disprezzo verso l’ammuffita ipocrisia della società, e la sofferta liberazione dai (pre) giudizi paterni.
Oggi mi piace il sapore di questo cocktail, perché l’agognato equilibrio degli ingredienti sembra vicino. Forse è possibile tenersi alla larga sia dalla dolcezza stucchevole che dall’acidità bruciante. E un giorno potrei scoprirmi capace di creare qualcosa di speziato e dissetante al tempo stesso. Una goccia di vita, forse: l’idea non mi spaventa più follemente. A volte mi sorprendo addirittura ad accarezzarlo con il pensiero, questo scenario. Oggi però non è ancora il momento di dargli concretezza.
Adesso è il momento di fissare confini che proteggano i miei desideri dall’esondazione di quelli altrui. Stabilire limiti permeabili, che possano essere attraversati, a patto che sia io a decidere, di volta in volta, se il gioco vale la candela. Costruirmi intorno una casa, a mo’ di lumachina, con porte e finestre. Questi confini sono ponti da attraversare per incontrare l’Altro, auspicabilmente a metà strada (o giù di lì). Non più campo incustodito, disponibile al pascolo brado. Servirebbe un sindacato, o un movimento di liberazione per gli imbucati loro malgrado, come me. Qualcuno che sveli a chi, ossessivamente si chiede “che ci faccio qui?”, che un abusivo inconsapevole non ha peccati originali da scontare. Altrimenti diventa colpevole consapevole; il suo reato, perdere l’occasione di imbucarsi volontariamente nelle innumerevoli feste che scandiscono la vita. Ognuna di queste ci cambia e dona qualcosa. Certo, preferiremmo frequentare solo quelle spensierate e ricche di sorprese, ma purtroppo sono molto più frequenti quelle insipide e quelle che ci lasciano addosso una tristezza inquieta. Poco male, s’impara anche da una sbronza spaventosa. Sul limite di sopportazione del nostro fegato, e sull’opportunità di mescolare forme diverse di alcool, ad esempio.