Sogno nel cassetto: poter tirare il fiato

Sala d’attesa

Il codice con cui mi chiameranno è K008.

Intanto però vedo scorrermi davanti le P, G ed Y in rapido ordine crescente, ma della mia lettera non c’è traccia.

Mi avrà mica consigliato male la tizia addetta al totem?
Ognuno qui attraversa a modo suo il tempo dilatato della pazienza coatta.
Qualcuna si rifa’ il trucco, altre rimangono in piedi sperando così di far scorrere più velocemente codici e numeri sul monitor.

C’è anche chi studia. Forse avrei dovuto seguire questo esempio.

“Quanto ci vorrà?”, mi chiedo. Mi sembra quasi una perdita di tempo essere qui, ore (quante?) preziose sottratte a studio, lavoro e ricerca di. Il mio bisogno di concretezza e produttività sovrasta la cura e l’attenzione per la salute della mia anca. Quasi non sono io.

All’improvviso, sui monitor compare una nuova lettera, la F. Allora posso sperare che fra poco faccia capolino anche la mia K.

Pensieri, paure, ansia e nervosismo accelerano il passo, esattamente come i codici sul monitor, fino ad accavallarsi e confondersi.

È questione di un attimo. Arriva il turno anche della mia lettera, molti dei numeri prima del mio vengono chiamati a vuoto. Ora tocca a me.


Pago, e inizia la vera corsa a ostacoli. Raggi e poi visita di controllo in sala gessi. Il tutto nel corridoio che mi ha vista rotta, in tutti i sensi, vulnerabile, esposta, eppure non sola, quella notte di maggio.

Fisso per qualche istante il punto esatto in cui era accostata la barella dove ero distesa, lì appeso c’è un discutibile e molto pretenzioso quadro astratto. Mi chiedo quanti soldi lo abbiano pagato. Probabilmente molti, mi rispondo.

Ero in questo stesso posto, quando medico e infermiere mi erano venuti incontro per darmi il responso. Qualche minuto prima una gentile e attenta signora mi si era avvicinata per chiedermi se volevo qualcosa dal distributore automatico. Ero infranta, ma quel gesto per un momento mi ha ri-incollata alla perfezione.
Si trovava al pronto soccorso per la sorella che aveva avuto un’emorragia cerebrale, eppure mi aveva vista. Il suo, di dolore e attesa, non l’avevano resa cieca. Chissà come stanno tutte e due, oggi.


Mi chiamano per fare le radiografie. Il buonumore del personale in sala raggi è il primo momento di sollievo da quando, all’alba, mi sono svegliata. Esco alleggerita, pronta, in un certo senso, a riempire di nuovo il vaso della pazienza prima che si palesi l’ortopedico che mi visiterà.

Manca mezz’ora al mio appuntamento, posso stare tranquilla, mi dico. Ma poi accanto a me cominciano ad assieparsi altre persone, anche loro devono essere visitate in sala gessi, chè poi il nome è fuorviante, perché è la stanza dove viene monitorato anche il recupero da operazioni chirurgiche, come nel mio caso (Magari essersela cavata con un gesso da fare istoriare da parenti, amici e fidanzato, rassicurata dall’ambiente domestico).


I minuti scorrono frettolosi, comincio a temere che uscirò da qui solo a mattinata inoltrata. Finchè all’orizzonte vedo un camice bianco, si muove sicuro nel corridoio, è chiaro che sa perfettamente dove è diretto. Ed è la mia sala gessi!

Forse finirò prima del previsto, meno male. Però non riesco a finire di formulare il pensiero, che riconosco il medico che dovrà visitarmi.


Impreco mentalmente, ma so che non posso sottrarmi a questa forca caudina.

Se me lo dicevi prima – Enzo Jannacci

Questa canzone appartiene ormai al mio DNA.

Come pelle, mi accompagna da anni in tutto ciò che vivo e mi attraversa, soprattutto quando ne esco accartocciata.

Qui ritrovo la solitudine di certi momenti in cui il mondo fuori non solo non ti capisce, ma parla proprio un’altra lingua.

La pienezza vitale che ti regalano le persone che ami, “semplicemente” con la loro presenza.

Il sollievo misto a incredulità quando sopravvivi ad un incubo vissuto ad occhi aperti.

Il tutto, raccontato con la poesia, l’umanità e lo “sguardo laterale” che rendono Jannacci unico. Speciale e vero. Salvifico.

Senza saperlo, Enzo mi ha presa per mano quando, smarrita e incerta, provavo a rimettere insieme la mia anca e la mia identità fondata sull’autosufficienza.

Se fosse il mio medico di base, farebbe anche – ed egregiamente – il lavoro della mia psicoterapeuta.

Calma apparente per una crisi deflagrante

Non c’è minaccia, negli occhi della gente per strada e al supermercato.

Le panchine difronte casa respirano a fondo e tranquillamente.

Il sole pigro di settembre si compiace di sé, libero dalle aspettative e dall’ansia di prestazione propri dell’estate.

Fuori, la quiete.

Non ci sono scelte obbligate da intraprendere. Il tempo, ancora, non è una bomba pronta a esplodere.

Sono fortunata. Non mi ritrovo con le spalle al muro, oggi.

Ma domani?

Barbero su Rai Storia continuerà a parlarmi in modo rassicurante, da qui a due mesi?

Servirebbe, forse, sentir risuonare, affannato e imperioso, l’allarme che pure vedo nascosto tra le cose?

Questo immenso non sapere – Chandra Livia Candiani

Sono stata spugna. Per molti anni, quasi tutta la

giovinezza, appena incontravo qualcuno, ero spugna.

L’avevo imparato nell’infanzia. Stai lì e assorbi tutto.

Non so come, ma quando si incontra una spugna, gli

altri si sentono invitati a parlare moltissimo. Quando

poi se ne andavano, ero stanchissima e opaca, completamente

senza riflesso. Certe volte andavo a dormire

raggomitolata sotto il piumino e quando provavano

a svegliarmi mi lamentavo e mi ci avvolgevo ancora

più stretta, come in un bozzolo. Quando una volta finalmente

mi chiesero: «Ma cos’hai? Sei malata?» Risposi

solo: «Ho visto gente». E allora compresi che

era ora di finirla.

Per un po’ mi chiusi a riccio: non volevo più vedere

nessuno.

Poi, dopo anni di India, di tecniche di meditazione

e di approdo a comprendere che stare con il respiro

non è una tecnica ma una storia d’amore, mi sono

tramutata, piano piano, con lenta costruzione, in fontana.

Posso ancora ascoltare, ma solo finché c’è acqua

che scorre e la fontana non trabocca. Ma soprattutto,

la fontana è lì a disposizione, chi vuole ci va a bere e

lei non assorbe niente, scorre. Il cuore non è spugna,

è fontana.

Ustica e l’ostinata empatica

27 giugno 1980, ore 18.40

Aeroporto di Bologna

Ritardo, attesa, desiderio di vacanze. Vociare, Settantasette umanità immerse nelle loro vite. Qualcuno legge, altri parlottano, altri ancora guardano i figli giocare, o li sgridano per qualcosa che hanno fatto. È l’ultima volta che compiono questi gesti, ma non lo sanno.

27 giugno 1980, ore 20

Il DC9 Itavia IH870 decolla. Destinazione, aeroporto Palermo – Punta Raisi

81 persone a bordo

Casa, ferie e affetti si avvicinano, finalmente. C’è chi si prepara ripassando mentalmente le cose da fare una volta arrivato in Sicilia, e chi preferisce dormirci sopra. Un bambino, almeno uno, certamente, avrà chiesto alla mamma: “quanto manca?”.

27 giugno 1980, ore 20.56

Il DC9 Itavia IH870 sta per iniziare la discesa. Per prepararla, comunica con la torre di controllo di Roma – Ciampino

«Roma, buonasera. È l’IH870.»

«Buonasera IH870, avanti.»

«115 miglia per Papa-Alfa… per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»

«Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»

«Sì: Raisi lo stimiamo intorno agli uno-tre.»

«870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»

«A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»

«È corretto.»

27 giugno 1980, ore 20.59

A bordo del DC9 Itavia IH870 tutto sembra tranquillo, il comandante Domenico Gatti ed il copilota Enzo Fontana chiacchierano del più e del meno, forse si raccontano una barzelletta.  «Allora siamo a discorsi da fare […] Va bene i capelli sono bianchi… È logico… Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no… Sporca eh! Allora sentite questa».

Intanto, intorno, nel cielo, qualcosa si muove indisturbato. Qualcosa si prepara a succedere. Ed è, sarà, irreparabile.

«Guarda, cos’è?»

È l’ultima cosa che dice il copilota Enzo Fontana.

27 giugno 1980, ore 21.15

Mare aperto tra Ponza e Ustica

D’improvviso, silenzio e assenza

Dopo, per chi resta, un cumulo di dolore aggrovigliato e la necessità di imparare a maneggiarlo. Rabbia per la verità dei fatti taciuta, nascosta, addirittura adulterata, da chi sapeva, da chi aveva sempre saputo, e preferito rimanere in un confortevole (?) cono d’ombra, trascinandoci dentro anche quanti, conoscevano i fatti della sera del 27 giugno 1980 per una mera casualità: essere al posto giusto nel momento giusto. Perché avevano volato nello stesso cielo del DC9 Itavia, perché erano di turno in una delle torri di controllo che copriva il suo percorso…

Almeno quindici di loro, però, non hanno potuto partorire la verità dei fatti, che pure possedevano e che avevano dovuto covare ben oltre il termine fisiologico di una gravidanza.

Non hanno potuto perché sono morti prima.

Qual è il discrimine tra suicidarsi ed essere suicidati?

Anche in questo caso, la risposta alla domanda è stata, crudelmente e cinicamente, resa impervia. Una corsa a ostacoli, la cui linea del traguardo non si riesce neppure a intravedere.

Durante 43 anni tuttavia, la parola fine arriva, pian piano, per chi resta

Per i familiari di chi è morto sul DC9 Itavia, e dei militari che avrebbero dovuto testimoniare su quanto accaduto nel cielo tra Ponza e Ustica in quella sera di giugno.

Per chi, come il giornalista Andrea Purgatori, ha dedicato la passione e la tenacia di una vita a ricostruire la verità, e contribuire a darle, come fa un papà con la figlia in altalena, la spinta sufficiente a deflagrare, richiamando tutte le persone coinvolte alle loro responsabilità.

Grazie anche al suo lavoro d’inchiesta, nel corso del tempo sono riaffiorati pezzi di verità. Difficile, oggi, avere dubbi sul fatto che nei cieli sul Mar Tirreno ci fosse un gran movimento la sera del 27 giugno 1980, e che il DC9 Itavia si sia trovato al posto giusto nel momento sbagliato. Usando una sua espressione (link), si può dire che è stato vittima di un “atto di guerra in tempo di pace”.

La giustizia processuale, invece, rischia di diventare un miraggio: durante 43 anni, la parola fine arriva anche per chi sapeva, magari da subito, e si è finto ignaro. Per chi ha avuto responsabilità dirette, e anche per chi “semplicemente” non ha impedito la strage di Ustica.

Mi piacerebbe avere forza sufficiente per sperare che le dichiarazioni di Giuliano Amato comportino un rapido, profondissimo e mirato terremoto politico, capace di disseppellire i tronconi mancanti di verità, e predisporre, finalmente, il raggiungimento della verità processuale.

40 anni, però, cominciano a pesare anche sulle mie spalle. Da troppo tempo camminiamo sotto la pioggia senza neppure la promessa di un raggio di sole.

Ciononostante, mai smettere di coltivare la memoria. Le vittime di Ustica non possono ridursi ad un numero, tra i tanti, di chi ha perso la vita a causa degli inconfessabili segreti del nostro Paese.

Andres Cinzia (24)  ▪  Andres Luigi (32)  ▪  Baiamonte Francesco (55)  ▪  Bonati Paola (16)  ▪  Bonfietti Alberto (37)  ▪  Bosco Alberto (41)  ▪  Calderone Maria Vincenza (58)  ▪  Cammarata Giuseppe (19)  ▪  Campanini Arnaldo (45)  ▪  Casdia Antonio (32)  ▪  Cappellini Antonella (57)  ▪  Cerami Giovanni (34)  ▪ Croce Maria Grazia (40)  ▪  D’Alfonso Francesca (7)  ▪  D’Alfonso Salvatore (39)  ▪  D’Alfonso Sebastiano (4)  ▪  Davì Michele (45)  ▪  De Cicco Giuseppe Calogero (28)  ▪ De Dominicis Rosa (Allieva Assistente di volo Itavia) (21)  ▪  De Lisi Elvira (37)  ▪  Di Natale Francesco (2)  ▪  Diodato Antonella (7)  ▪  Diodato Giuseppe (1)  ▪  Diodato Vincenzo (10)  ▪  Filippi Giacomo (47)  ▪  Fontana Enzo (Copilota Itavia) (32)  ▪  Fontana Vito (25)  ▪  Fullone Carmela (17)  ▪  Fullone Rosario (49)  ▪ Gallo Vito (25)  ▪  Gatti Domenico (Comandante Pilota Itavia) (44)  ▪  Gherardi Guelfo (59)  ▪  Greco Antonino (23)  ▪  Gruber Martha (55)  ▪  Guarano Andrea (37)  ▪  Guardì Vincenzo (26)  ▪  Guerino Giacomo (19)  ▪  Guerra Graziella (27)  ▪  Guzzo Rita (30)  ▪  Lachina Giuseppe (58)  ▪  La Rocca Gaetano (39)  ▪  Licata Paolo (71)  ▪  Liotta Maria Rosaria (24)  ▪  Lupo Francesca (17)  ▪ Lupo Giovanna (32)  ▪  Manitta Giuseppe (54)  ▪  Marchese Claudio (23)  ▪  Marfisi Daniela (10)  ▪ Marfisi Tiziana (5)  ▪  Mazzel Rita Giovanna (37)  ▪  Mazzel Erta Dora Erica (48)  ▪  Mignani Maria Assunta (30)  ▪  Molteni Annino (59)  ▪  Morici Paolo (Assistente di volo Itavia) (39)  ▪  Norrito Guglielmo (37)  ▪  Ongari Lorenzo (23)  ▪  Papi Paola (39)  ▪  Parisi Alessandra (5)  ▪  Parrinello Carlo (43)  ▪  Parrinello Francesca (49)  ▪  Pelliccioni Anna Paola (44)  ▪  Pinocchio Antonella (23)  ▪  Pinocchio Giovanni (13)  ▪  Prestileo Gaetano (36)  ▪  Reina Andrea (34)  ▪  Reina Giulia (51)  ▪  Ronchini Costanzo (34)  ▪ Siracusa Marianna (61)  ▪  Speciale Maria Elena (55)  ▪  Superchi Giuliana (11)  ▪  Torres Pierantonio (32)  ▪  Tripiciano Giulia Maria Concetta (45)  ▪  Ugolini Pierpaolo (33)  ▪  Valentini Daniela (29)  ▪  Valenza Giuseppe (33)  ▪  Venturi Massimo (31)  ▪  Volanti Marco (36)  ▪  Volpe Maria (48)  ▪  Zanetti Alessandro (18)  ▪  Zanetti Emanuele (39)  ▪  Zanetti Nicola (6)

Per approfondire: Associazione Parenti delle vittime della strage di Ustica

Ustica, 40 anni di bugie

Il muro di gomma

Febbre a 90° (Fever Pitch) – David Evans

Perché ci piacciono così tanto le storie?

Perché la nostra mente ha una fame inestinguibile di racconti avvincenti e ben sviluppati?

Perché possiamo leggerli a vari livelli. Di volta in volta, possiamo scegliere di immergerci totalmente nella trama, e godercela senza troppi retropensieri, commentare/giudicare le scelte dell’autore, concentrarci su un’analisi prettamente stilistica, estrapolare gli elementi della storia che sentiamo risuonare anche nel nostro, personale, percorso di vita.

In quest’ultimo caso, ci si può immedesimare anche in personaggi lontanissimi da noi, dalle nostre priorità, dal nostro background familiare…

A me, ad esempio, è successo con il protagonista di Febbre a 90° (Fever Pitch), tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby.

Senza spoilerare troppo, si può dire che, ad una lettura immediata e “superficiale”, il film racconta come l’insana passione per la squadra dell’Arsenal abbia formato/condizionato nel corso degli anni le scelte di Paul, insegnante di letteratura.

Sono fermamente convinta, però, che dietro e sotto ci sia molto altro, il racconto di qualcosa di più ampio – forse addirittura universale – una dinamica che tanti di noi conoscono, hanno attraversato e vissuto. Vale a dire, una passione personale che può riguardare, appunto, una squadra di calcio, uno sport, i viaggi, la musica, che assorbe una quantità notevole di energie, che ci nutre e monopolizza al tempo stesso, (trat) tenendoci in una condizione di perenne adolescenza, fino a quando compare un elemento di rottura. L’inciampo che non necessariamente abbiamo scelto o voluto ma che, una volta concretizzato, ci costringe a rinegoziare la profondità e simbioticità del rapporto con quella passione.

Cosa decideremo di fare, a questo punto? Tenerci stretta la passione per rimandare finché possibile la nostra crescita (con relativa assunzione di responsabilità), o lasciar andare un pezzetto del nostro ego per incontrare l’altro?

Per scoprire quale strada intraprende il protagonista di Febbre a 90° dovete vedere il film; in questo brevissimo estratto, invece, il momento in cui la passione per l’Arsenal fa scattare in Paul il desiderio ed il coraggio di staccarsi dal padre. È così che sperimenta uno spazio di libertà e autodeterminazione indispensabile per sentirsi parte di una comunità, una famiglia non di sangue, scelta in autonomia, sulla base di un comune “fuoco sacro”.

Il falò delle illusioni

Dicono che imparare a camminare comporti la capacità di perdere l’equilibrio. La volontà, conscia o inconscia, di rinunciare temporaneamente ad una condizione di stabilità, barattandola con il movimento, e quindi il cambiamento, l’azione.

Tutte cose che, indiscutibilmente, sono più divertenti, interessanti e appetitose per un bambino, ma anche per una quarantenne che dopo essersi rotta il collo del femore desidera tornare ad una normalità fatta di autodeterminazione, centratura e libertà, mi verrebbe da dire.

C’è però una differenza sostanziale tra i due: un cucciolo di uomo abbraccia e accetta senza riserva alcuna l’incognita connessa alla perdita di equilibrio.

L’adulta no, non sempre e di certo non a cuor leggero, perché ha conosciuto il sapore dell’autosufficienza, si è crogiolata nell’illusione che questa condizione fosse immutabile, è arrivata ovunque (o quasi) con il solo aiuto delle sue gambe e della sua tenacia, per poi perdere tutto in un attimo.

L’autodeterminazione, allora, è una ri-conquista che necessita uno sforzo – talvolta anche una forzatura –  consapevole: dolore fisico, tempeste emotive, solitudine. E in più, spalle sufficientemente larghe, che riescano a incassare i piccoli incidentali fallimenti in cui si inciampa nel quotidiano, senza dedurre da questi il proprio essere, interamente e irrevocabilmente, fallimentare come persona.

Tornare sul luogo della caduta ha cristallizzato la consapevolezza di questa differenza. Non sarò mai più allegramente e distrattamente convinta dell’onnipotenza delle mie gambe, non mi lancerò più da sola in imprese improbabili e strampalate, logisticamente e non.

Da qui in avanti, posso – o forse devo, per voglio vivere la mia vita e non restare a guardarla – abbracciare senza riserve solo la certezza della vulnerabilità del corpo. L’impossibilità di garantirgli sempre e comunque una protezione del 101 %

Solo questo posso: promettergli e promettermi che terrò e viva e alimenterò la gratitudine per tutte le cose che mi permette di fare, restando il più possibile nel qui ed ora. Non conosco altri modi, oggi, per metterlo al riparo da nuovi pericoli.

Tra me e me

“Non sapere è la più grande intimità”

Ho sentito risuonare da subito questa frase letta in un libro sulla mindfulness. Eppure la mia pancia la rigetta, quando penso al mio rapporto con lui.

Come accettare il non sapere, se legato a ulteriori problemi all’anca? Mi è impossibile immaginare che il mio amore possa affrontare ulteriori turbolenze dovute ad un nuovo ricovero, ed a chissà quanti giorni, ancora, di distanza.

Il non sapere che può scaturire da schegge impazzite di passato che tentano di riproporsi, anzi di imporsi, poi, mi inquina il sonno con un batticuore anomalo e perturbante.

Io non sono questa. Io sono (anche) il nitore di ciò che provo e dei pensieri che voglio nutrire. La paura di vivere in balia di squilibri altrui non è tra questi.

Ho il diritto di agire assertivamente i miei desideri, progetti e amore. Il “non sapere” è ammissibile a valle, non a monte. Mai più ostacolo originario a creare – o provare a – qualcosa che sento mio, che mi rende fiduciosa e che mi dà la forza e coraggio per guardare fuori dal mio guscio, dalle mie abitudini e dalle mie nevrosi.

Questo qualcosa si chiama insieme.

Potrebbe non nascere mai, o avere vita breve. O magari durare un sacco. Purtroppo o per fortuna i tre scenari non dipendono (solo) da me.

Tendere la mano al mio – spero – complice, ha a che fare solo con me, invece.

(R) esistere ad agosto

Mi manca il mare. Ma il caldo malato di questa estate ha azzoppato la mia forza di volontà ben peggio della mia gamba.

Mi manca un lavoro che rispetti il mio tempo, che gli riconosca il valore che ha. Eppure non riesco ad opporre resistenza alle ripetute invasioni di campo che deve subire.

Mi manca potermi appoggiare ed accasciare, talvolta. Però continuare a rinegoziare al ribasso la mia autosufficienza costa troppo. Molto di più di quanto posso permettermi di spendere a livello emotivo.

Mi manca l’amore incondizionato che sa di famiglia. Ma non riesco più ad accettare che questo, quando si manifesta, lo faccia con il peso di una palla al piede e con l’oppressione tipica della cappa di calura estiva.


Sono voglia di camminare, bisogno di ridere, desiderio di amare. Più di tutto però, adesso, sono la mia sofferenza.


È una questione di sopravvivenza. 

Il primo giorno della mia nuova vita

Solo io e la mia gamba sinistra sappiamo davvero cosa abbiamo passato da quel pomeriggio di maggio.


Quarantotto giorni di ricovero – e dipendenza da estranei – non si possono capire, senza averli vissuti.


Uso il verbo potere perché inconsciamente so che sarebbe ingiusto colpevolizzare chi non li ha attraversati.


Vivere una frattura del femore con tutti gli annessi e connessi non è una cosa che si sceglie. Neanch’io l’ho fatto. È successo. Mi è successo, e questo è quanto.


Rivendico però il mio diritto di respingere frasi fatte, rassicurazioni sbrigative e superficiali e frasi fatte motivazionali d’accatto. Quelle relative alla riabilitazione che sto affrontando, e non solo.


Anzi, meglio, rivendico il diritto di rigettare al mittente – anche energicamente e senza troppi complimenti – tutta la paccottiglia di consigli non richiesti/perle di saggezza/tentativi di banalizzare il (mio) dolore a partire da quelli che riguardano la mia attuale condizione.


La mia gamba sinistra non è ancora tornata quella di tre mesi fa, ma senza il suo – il nostro – purgatorio non mi sarei mai liberata della schiavitù che comporta farsi carico sempre e comunque della stragrande maggioranza di empatia e immedesimazione che richiede un rapporto. Di qualunque natura esso sia.